IL DONO
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IL DONO

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*Mario Veronese nasce ad Arsiero il 20 Settembre 1958

* Inizio della sua vita terrena 65 anni fa

* Sposato con Elena, le sue due figlie sono ormai grandi

* Ha fatto parte per molti anni del gruppo musicale “Valincantà”

 come voce e mandolino, ha lasciato in eredità vari testi e musiche

*Nella vita lavorativa ha fatto tante cose in giro per l’Italia

* Ora è finito a vendere scarpe nel suo negozio di Arsiero

* Ha pubblicato una raccolta di poesie (farina del me saco)

* Come hobby gli piace rimanere in compagnia del suo

   piccolo Amico Jatz, camminando per i sentieri montani

* Da buon veneto gli piace mangiare e bere bene.

* Ha scritto questo libro perché queste brevi storie

   non vengano dimenticate.

200 Articoli

Ad ogni partenza.

 

Mi alzavo quasi sempre alle cinque meno un quarto di mattino, era sempre così, con qualsiasi tempo: “Quando canta il gallo!” diceva mia nonna Maria.

Dormivo poco le notti prima delle partenze; sapevo che dovevo rimanere lontano dal mio paese e dalla mia gente per molto tempo. Quel mio mio dormire agitato mi faceva rivoltare nel letto più volte, e, ad ogni mio rigirare, scricchiolava tutto, ma mi ero abituato a questo rumore familiare fatto di cigolii.

Mi vestivo in fretta, una lavata alla faccia e salivo in camera dei miei per salutarli. Sapevo che mi stavano aspettando. Accostavo un po' la porta e subito mi arrivava al naso l’odore acre di fumo. Mio padre fumava tanto, anche in camera da letto: leggeva e fumava.

“Ciao” dicevo, “io vado e non so se la settimana prossima ritorno a casa, casomai ci vediamo fra una ventina di giorni!”

Mia madre mi raccomandava di stare attento in quanto il viaggio mi avrebbe portato in una grande metropoli e i pericoli, oggi come allora, erano sempre in agguato dietro ad ogni angolo.

“Sì mamma” dicevo, “non preoccuparti”.

Mio padre invece mi chiedeva sempre se avessi bisogno di soldi, rispondevo sempre: “Grazie papà, ma ne ho abbastanza!” Anche se in realtà non era vero, sapevo però che a loro sarebbero serviti più che a me.

Ancora un ciao e poi richiudevo la porta.

Bussavo poi alla porta di mio fratello più piccolo per fagli uno scherzo ma subito mi apostrofava con un sonoro: “Coglione la smetti di rompere?” Scendevo da ultimo le scale ed andavo ad aprire poco poco la porta della camera del fratellone e, subito, sentivo fischiare una ciabatta che andava a sbattere contro la porta.

Un ultimo piano fino ad arrivare in cucina dove ad attendermi c’erano un panino ed una spremuta d'arancia e la mia inseparabile valigia di cartone legata con una corda, all'interno della quale erano riposti con cura i pochi indumenti ben stirati da mamma, che soleva profumare con un piccolo sacchettino di erbe aromatiche, di solito lavanda, e a volte, ci metteva anche la naftalina: anche questi odori di casa.

Presa la valigia per la vecchia maniglia cigolante scendevo nuovamente le scale e mi avviavo verso la piazza del paese dove la corriera dell’allora Siamic aspettava chi come me andava al lavoro o a scuola. Alla guida c’era sempre l’amico Vento che mi salutava ogni volta con un bel sorriso.

Oltre a Vento c’era il bigliettaio, addetto a controllare e bucare i biglietti e a far segno all’autista durante le manovre o le retromarce.

Al comando “Diamooo!” quasi cantato dal controllore il buon Vento partiva.

Io mi sedevo sempre lato finestrino e tenevo fra le gambe la vecchia valigia dal contenuto prezioso: il profumo di casa. Dovevi stare anche attento che la corda che la teneva chiusa non si rompesse.

Dal finestrino vedevo gli amici che già di buon mattino si recavano al bar per bere la grappetta prima di cominciare la giornata lavorativa.

Salutavo e venivo ricambiato.

La corriera scendeva per il viale e passava proprio sotto casa mia.

A quella vista non so perché ma le mie guance si rigavano di lacrime salate ed una piccola goccia inevitabilmente andava a finire proprio nell’angolo della bocca. Estraevo la lingua e la andavo a cogliere come si coglie un fiore.

Ad ogni fermata il controllore scendeva ed andava a prendere dei sacchi di iuta contenenti la posta che caricava sotto la corriera, all'interno di un grosso vano.

“Diamooo!!!” cantava il controllore e l’autista ripartiva. Ricordo una volta il vecchio burlone di Fiorenzo, ad una fermata, mentre il controllore era a terra gridò: “Diamooo” e l’autista partì lasciando a terra lo sfortunato.

Arrivati davanti la stazione dei treni di Vicenza la corriera fermava la sua corsa ed io scendevo non senza prima aver ricordato a Gobbetto (Vento) di salutare mia mamma quando sarebbe ritornato in paese, ad un cenno delicato del suo viso alzavo la mano e scendevo felice.

 Velocemente, dopo aver acquistato il biglietto destinazione Milano, m'incamminavo verso il binario a quel tempo il  numero uno.

Già dall’altoparlante una voce femminile stava indicando l'imminente partenza, così correvo veloce con stretta sotto il braccio la mia valigia, salivo nel primo vagone che mi trovavo di fronte e iniziavo a cercare un posto vicino al finestrino. Mi piaceva sedermi lì perché abbinavo lo sferragliare del treno al panorama che via via cambiava, così come cambiava il mio stato d’animo.

Arrivato in stazione Centrale di Milano c'era sempre un grande brulicare di persone che come dei robot telecomandati senza parlare si avviavano verso mete diverse.

Mi ritrovavo così anch'io immerso a quel brulicare e tra tutta quella gente sentivo come un nodo alla gola. Un pensiero allora mi assaliva,  sempre lo stesso e costante: TORNARE... A casa mia 

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